La minigonna: centimetri di libertà

Lo sappiamo tutti: l’abito FA il monaco.
E lo fa ancora di più se il monaco in questione è DONNA.
Nella società dell’immagine, oggi, siamo tutti giudicati in base al nostro aspetto, e noi ragazze lo sappiamo molto bene!
Ogni volta che scegliamo i vestiti e i gioielli da indossare, scegliamo di comunicare al mondo un determinato messaggio e, certe volte, questo messaggio può anche dare il via ad una rivoluzione.
Come quella che abbiamo iniziato indossando la minigonna.
Quella della minigonna è l’unica rivoluzione del Novecento che non sia finita in tragedia sanguinaria, la sola ad aver mantenuto le sue promesse di liberazione e anche l’unica che, nelle sue molteplici declinazioni, è tutt’ora in corso.
In quei pochi centimetri di tessuto le donne hanno infatti proiettato ribellione, desiderio di cambiamento, allusioni ed evoluzioni.
Centimetri di libertà, che hanno veicolato l’idea dell’autodeterminazione femminile: la minigonna è stata sicuramente più efficace di qualsiasi manifesto femminista.
Non si tratta solamente di un capo di abbigliamento.
La minigonna è diventata un mito, ma è stata, in primis, lo strumento per veicolare e diffondere a macchia d’olio il desiderio di emancipazione delle donne di tutto il mondo.
E lo è ancora oggi: io sono mia, sembrano gridare quelle gambe in libertà che spuntano sotto i pochi centimetri di stoffa.
Storia vecchia fa buon brodo, ma non è un caso che l’accorciamento dei vestiti – orli e maniche – sia da sempre stato direttamente proporzionale al desiderio di autodeterminazione del genere femminile.
Era già accaduto negli anni Venti quando le svolazzanti gonnelline charleston salirono ben al di sopra del ginocchio, mandando in soffita longuettes, crinoline, e gonnelloni (e a quel paese bacchettoni e moralisti).
UN PO’ DI STORIA
È curioso notare come la minigonna non sia il frutto delle rivoluzioni e dei cortei sessantottini, ma li anticipi di ben 5 anni.
Era infatti il 1963 quando Mary Quant, nel pieno del clima effervescente della Swinging London di quel decennio, liberò le gambe delle sue clienti.
La mini skirt svecchiava l’abbigliamento delle giovani londinesi così come l’iconica Mini Minor svecchiava le quattroruote, entrambe strizzavano l’occhiolino ad un modo di vivere giovane, scapigliato e disinibito.
Il momento in cui la minigonna fece la sua apparizione nelle vetrine di Bazaar, la boutique che la Quant aveva aperto al primo piano della sua casa in King’s Road, fu il momento del definitivo strappo con il passato.
Bazaar e la stessa King’s Road diventarono così l’epicentro creativo di Londra, la città dei Beatles e dei Rolling Stones, degli Who e di Marianne Faithfull.
La città dove Richard Avedon e Helmut Newton riscrissero i canoni della bellezza femminile, fotografando le gambe scoperte di Twiggy e di Jean Shrimpton, gambe lunghe e affusolate che erano vere e proprie armi, ancora più letali delle molotov e persino degli zoccoli di legno delle femministe.
Le donne, fino ad allora logorate dal conservatorismo opprimente del patriarcato, si aggrapparono con tutte le loro forze a quei pochi centimetri di stoffa e li usarono per emanciparsi e riscattare sia la propria femminilità, sia quella di qualsiasi altra donna che, fino ad allora, si sentiva inadatta, sbagliata e inadeguata.
La minigonna era diventata fondamentale per il riscatto femminile contro il maschilismo imperante.
Infatti, ogni centimetro in meno di stoffa era percepito come un colpo ulteriore al maschilismo e al sistema patriarcale.
Un fendente che mandava in frantumi l’immagine stereotipata e indelebilmente impressa nell’immaginario maschile della donna sottomessa e confinata ai fornelli. Un’immagine che ormai strideva con l’aria frizzante del momento.
Ovviamente fu uno scandalo.
Quelle gambe vennero considerate come l’emblema del male e del malcostume.
Scandalose e immorali.
In realtà negando la minigonna si cercava di negare alle donne l’autodeterminazione del proprio corpo che mandava in frantumi l’immagine familiare e familista della donna sottomessa e materna, una donna non seduttiva e dedita unicamente alla famiglia e alle virtù domestiche.
La minigonna, però, piaceva alle donne, anche e soprattutto perchè lusingava la loro essenza femminea.
Cominciarono così ad indossarla tutte.
Ma proprio TUTTE: dive e donne comuni.

Mary Quant, la stilista dal caschetto irriverente, dalle gonne cortissime e gli stivali di pelle attillati, regalò alle donne molto più di un capo di abbigliamento: regalò alle donne la libertà di saltare, ballare e di mostrarsi o più semplicemente di rincorrere un autobus senza impedimenti.
“Più corto, più corto”
le chiedevano le clienti durante le prove nel suo laboratorio, mentre gli orli si accorciavano sempre di più.
Per questo ancora oggi Mary Quant afferma che:
“Le vere creatrici della minigonna sono le ragazze che si vedono in strada”.
La minigonna di Mary e gli altri suoi capi (i famosi hot pants, evoluzione estrema della miniskirt) fecero il giro del mondo, grazie anche alle magrissime gambe di Twiggy, la super model, volto (ma soprattutto gambe) della Swinging London.
Insomma, nonostante l’invenzione di questo capo sia tuttora contesa da altri fashionisti e stilisti meno celebri di lei, nel lessico contemporaneo della moda si scrive mini skirt e si legge Mary Quant.
OGGI
Perché ritengo che questa rivoluzione sia ancora in corso, nonostante siano passati parecchi decenni dalla sua prima apparizione?
La risposta è semplice: basta pensare all’ostilità che si respira ancora oggi in quei paesi dove conservatorismo e maschilismo patriarcale vanno ancora a braccetto.
Per garantire e mantenere lo status quo misogino, i governi sanno bene che la prima cosa da colpire e distruggere sono i simboli del femminismo e la minigonna è in assoluto LA dichiarazione della libertà e dell’indipendenza femminile.
Tristemente devo però evidemziare come nemmeno il “libero mondo occidentale” risulti essere del tutto esente dai rigurgiti del maschilismo opprimente e censorio.
Infatti, si assiste ancora oggi a qualche episodio sporadico (ma indicativo) di reprimenda contro le gambe scoperte.
Gambe che nei discorsi più offensivi vengono definite “prosciutti” e “carne al vento”.
Una stupida e becera ironia che porta in superfice quella volgarità misogina e maschilista che identifica le donne come “pollastre” o “pezzi di carne” da consumare.
È sempre quello stesso stupido pensiero misogino che accusa le ragazze vestite in un certo modo di “essersela andata a cercare” quando si tratta di molestie e violenze e che si incarna nell’odiosa domanda che certi giudici rivolgono alle vittime: “Come era vestita?”.
Insomma, la strada dell’emancipazione femminile è ancora lunga e tortuosa ma, grazie all’intuizione di Mary Quant, il sentiero è ormai tracciato.
E indietro non si torna!