Jackie Kennedy, tra stile e mito

Jackie Kennedy, tra stile e mito

Jackie Kennedy, tra stile e mito

Jackie Kennedy è ricordata per essere stata una delle First Lady d’America più giovani, moglie di un Presidente leggendario come John F. Kennedy, ma soprattutto è ammirata e citata ancora oggi come esempio di classe e stile per la sua straordinaria eleganza.
Un’ eleganza innata che fece di lei un’icona fashion, regina del Bon Ton.

Della sua vita si sa quasi tutto e la sua raffinatezza e buon gusto sono ancora oggi fonte di inesauribile ispirazione per gli stilisti e le donne di tutto il mondo.

Jacqueline Kennedy, nata Bouvier da una famiglia di origini franco-olandesi appartenente all’alta società americana, coltivò sin dall’adolescenza la passione per l’arte, la poesia, la fotografia e l’equitazione.

La sua famiglia le impartì un’educazione rigida ed impeccabile, facendole frequentare le migliori scuole come la Vassar University di New York, dove si diplomò in Belle Arti, la Sorbona di Parigi ed infine la George Washington University.

Rientrata negli States dopo la parentesi europea, partecipò ad un concorso di scrittura che le fece ottenere il suo primo lavoro come giornalista, presso la rivista “Vogue” e in seguito fu assunta al “Washington Times Herald” come  “inquiring photographer”.
Grazie a questo incarico divenne un viso conosciuto negli ambienti politici di Washington dove, ad una cena, incontrò il futuro marito: l’allora giovane congressista del Massachussetts John F. Kennedy.

Jakie Kennedy Giornalista

Fu un incontro che le cambiò la vita: tra i due scattò il classico colpo di fulmine, si frequentarono per due anni e si sposarono nel 1953 .

Sette anni dopo Jackie era in attesa del loro primo figlio, mentre John era impegnato nella corsa alle presidenziali come esponente del Partito Democratico.

Nonostante la gravidanza, Jackie decise di seguire il marito per tutta la nazione, fino alla conclusione della campagna elettorale che vide l’elezione di John F. Kennedy come 35° Presidente degli Stati Uniti d’America.

Jackie sapeva che il ruolo di una First Lady era determinante, così come era consapevole del potere dei media dal punto di vista dell’influenza politica e sociale. Si impegnò così nella costruzione di una immagine completamente nuova che sfoggiò sin dal primo momento in cui mise piede alla Casa Bianca.

La neo First Lady aveva una visione moderna della moda, maturata anche grazie al suo soggiorno parigino dove ebbe l’occasione di raffinare e perfezionare il suo già notevole gusto per l’eleganza.
Tuttavia, il suo stile agli esordi fu assai criticato: nonostante si stesse già trasformando in un’icona di inarrivabile eleganza i cui look erano riproposti e copiati nei grandi magazzini di tutto il mondo, durante la campagna presidenziale i suoi outfit vennero ritenuti troppo filo-francesi.

Jackie amava stilisti come Givenchy e Dior, ma sapeva che la sua predilezione per la moda europea poteva essere giudicata come un atteggiamento poco patriottico. Trovò così il giusto compromesso scegliendo lo stilista francese, naturalizzato statunitense, Oleg Cassini.

A lui Jackie affidò il compito di creare il guardaroba ufficiale per gli abiti della First Lady d’America.

Lo stilista non la deluse: disegnò più di 300 abiti consoni al ruolo, scegliendo colori come il lime, il giallo la zucca e l’albicocca, nuances che si adattavano perfettamente alla personalità vivace e indipendente di Jackie.

Nei suoi anni alla Casa Bianca Jackie indossò abiti semplici, spesso monocolore, dai colori forti e decisi o in tinta pastello, quasi sempre corredati da un cappellino “pillbox” coordinato che divenne il suo “marchio di fabbrica”.

Era nato il famoso Jackie Style, che la consacrerà assoluta icona di stile.

Ma la signora Kennedy non si limitava ad indossare passivamente i capi creati per lei dai migliori stilisti, disegnava lei stessa i suoi modelli.
I suoi bozzetti sono infatti stati scoperti di recente: schizzi a matita e appunti che lei mostrava a stilisti del calibro di Givenchy, Chanel, Hermès, Gucci e Valentino, chiedendo loro di trasformare le sue note in abiti da sogno.

Carismatica, raffinata ed elegante, non passava mai inosservata, durante le occasioni di rappresentanza presidenziale Jackie era costantemente al centro dell’attenzione, rubando spesso la scena al marito.
Resta negli annali l’ammissione del Presidente, durante una conferenza, dove ammise pubblicamente il ruolo di rilievo della moglie definendosi come “.. il signore che ha accompagnato Jacqueline Kennedy a Parigi”.

Savoir faire, aplomb, ricercatezza nei dettagli e semplicità, erano questi gli elementi che permisero a Jackie di influenzare il mondo con il suo leggendario stile.

Per la First Lady era importante riuscire ad apparire sempre perfetta in ogni situazione e in ogni occasione.
Del suo stile rimangono celebri gli abiti simmetrici dal collo stondato, i cappottini con i grandi bottoni foderati e i suoi cappellini dal gusto un po’ retrò.

I tailleur boxy erano la sua scelta per gli impegni diurni, completi composti da un abito avvitato oppure una gonna abbinati ad una giacchina corta e squadrata, un modello che ricorda molto  i completi Chanel…

L’alternativa meno formale al tailleur era il vestito a trapezio senza maniche, altro caposaldo del suo guardaroba, molto di moda negli anni ’60, spesso li indossava in tinta unita ravvivandoli con accessori neutri.
Oltre al vestito a trapezio anche il suo “A Line Dress” diventò un capo iconico e imitatissimo.

Per le occasioni mondane e i ricevimenti serali Jackie preferiva l’abito strapless che ogni tanto alternava a modelli sbracciati.
In queste occasioni non mancava mai di indossare dei guanti a “lunghezza opera” (sopra il gomito) sempre e rigorosamente bianchi, a prescindere dal colore dell’abito.

Nel tempo libero non seppe mai rinunciare ai pantaloni Capri, preferiti per le vacanze che trascorse sia come Signora Kennedy che come Signora Onassis nell’omonima isola.
Spesso veniva paparazzata con pantaloni a sigaretta alla caviglia indossati con sandali o addirittura a piedi nudi.

A proposito di accessori: Jackie aveva anche una vera e propria passione per borse, foulard da indossare nelle giornate di vento o in barca, guanti e soprattutto grandi occhiali da sole neri, che utilizzava anche per sfuggire ai paparazzi quando successivamente divenne la “Signora Onassis”.
Infatti, gli occhiali da sole oversize diventarono un accessorio di culto per Jackie, ma solo dopo la fine del suo periodo alla Casa Bianca, dal momento che l’etichetta imponeva a una figura pubblica e di spicco di non nascondere mai lo sguardo al pubblico.

Jackie adorava i gioielli: indossava spesso collane e girocolli di perle, anche a più fili e con chiusure preziose.
Gli orecchini erano sempre a lobo, grandi e brillanti, alle occasioni speciali riservava invece lunghi e preziosi orecchini pendenti.
Utilizzava spille per sottolineare una scollatura e per caratterizzare e enfatizzare vestiti in tinta unita.

 Dopo l’assassinio del marito, Jackie convolò a seconde nozze con l’armatore greco Aristotele Onassis e si lasciò alle spalle le tinte pastello per buttarsi nella moda degli anni  ’70, sfoggiando tailleur pantaloni in colori gioiello, giallo sole o denim.
Ma non rinunciò mai al color block e neanche ai famosi maxi occhiali da sole, così come rimase fedele per tutta la vita alla sua acconciatura.

L’iconico carré fu creato dall’hair-stylist Kenneth Battelle che fu al suo servizio dal 1954 al 1986. La sua pettinatura si adattò negli anni alle mode del periodo (più gonfia e cotonata durante gli anni ’60 e con una maggiore lunghezza negli anni ’70) ma rimase sempre e comunque uno dei punti fermi.

Insomma: Jacky Kennedy di stile se ne intendeva, ma non era semplicemente raffinata e con un ottimo gusto per la moda.
Con la sua intelligenza seppe dare un contributo fondamentale all’immagine politica del marito: la sua eleganza, la conoscenza della storia e di ben quattro lingue, furono cruciali nel creare il mito politico dei Kennedy.
Jackie riuscì ad affascinare anche i più cinici e insensibili capi di Stato, come Charles De Gaulle e Nikita Kruscev.

Insomma, il detto : “Dietro ad un grande uomo c’è sempre una grande donna” è, nel caso dei Kennedy, più che mai vero!

Fotogallery

Mario Cesari l’artigiano del metallo

Mario Cesari l’artigiano del metallo

Mario Cesari l’artigiano del metallo

Ci sono artisti che restano sconosciuti al grande pubblico ma che rappresentano una vera e propria autorità nel loro settore.

Mario Cesari era uno di questi, un nome e un viso molto noti nella comunità orafa italiana, fondatore del gruppo Facebook “Lavorazione del metallo” di cui fanno parte molti maestri dell’arte orafa e molte persone appassionate della materia.

Io lo conobbi virtualmente anni fa, quando ero ancora all’inizio del mio percorso: mi iscrissi al suo gruppo in cerca di aiuto per un errore ingenuo da principiante.
Mario fu uno dei primi a rispondermi: con grande generosità non si limitò solamente a darmi indicazioni su come risolvere la situazione e recuperare l’anello che stavo rovinando, ma mi elargì una vera e propria lezione di oreficeria di cui ho fatto tesoro.

Molti lo avevano conosciuto di persona perché avevano frequentato i suoi corsi, o lo avevano incontrato alle mostre a cui esponeva le sue opere, altri invece si erano avvicinati all’arte orafa proprio guardando i suoi tutorial.

Il suo laboratorio si trovava a Pennabilli, il piccolo paese dell’Emilia Romagna dove aveva scelto di vivere, dopo aver lasciato Venezia.
Pennabilli è anche il nome del suo sito, ricco di schede tecniche e informazioni preziose che Mario amava affidare alla rete, sapendo che avrebbero potuto essere d’aiuto a qualcuno desideroso di imparare.

Scrisse anche un libro sulla sua tecnica preferita, la fusione in osso di seppia e, non riuscendo a trovare un editore, decise di impaginarselo da solo e di auto pubblicarlo.

Mario era sempre pronto a dispensare consigli e a trasmettere la sua esperienza, la sua pagina social e il suo sito sono ricchi di foto e spiegazioni dettagliate che illustrano le varie fasi di creazioni di un gioiello.
Chi lo aveva conosciuto lo descriveva come una persona eclettica, creativa, ombrosa e di poche parole, poco incline alle regole dal momento che amava ragionare con la propria testa e porsi parecchie domande.

Fase 1 Fusione Osso di seppia
Fase 2 Fusione Osso di seppia
Fase 3 Fusione Osso di seppia
Fase 4 Fusione Osso di seppia
Fase 5 Fusione Osso di seppia
Fusione di un gioiello in osso di seppia: fasi di lavorazione

Non gli piaceva essere definito “artista”, dal momento che lui si sentiva  un “artigiano”:

“L’artigiano è colui che crea, che si riconosce all’interno di una tradizione, custode di un patrimonio di conoscenze, e riesce con le proprie mani e i giusti attrezzi a trasformare la materia in prodotto artistico.”

Mario Cesari era un uomo semplice nei modi, a prima vista suggeriva un’impressione di ingenuità, ma la sua era un’ingenuità profonda e intelligente che sapeva sorprendere, era dotato di una brillante curiosità che rivolgeva soprattutto al mondo della natura, nelle sue pagine social, tra un tutorial e un gioiello, spiccano foto di tramonti, fiori, piccoli uccellini e insetti di cui si divertiva ad osservare il comportamento.

Le sue creazioni sono delle piccole opere d’arte, curatissime nei dettagli e nei particolari, realizzate con le tecniche orafe più disparate, anche se la fusione con l’osso di seppia era la tecnica che utilizzava maggiormente, insieme alla forgiatura,  in cui era diventato un vero maestro.

Mario Cesari - Anello forgiatura
Mario Cesari - Fusione cera persa
Orecchino Mario Cesari - Keum boo
Spilla Mario Cesari - fusione in osso di seppia

Era però anche capace di creare piccoli capolavori con oggetti umili o considerati “inutili” come  un vecchio chiodo, una posata o anche un’antenna.

Alle antenne Mario era particolarmente affezionato.
Infatti, lui e il fratello in gioventù erano stati “radiotelegrafisti di bordo” sulle navi.
L’avventura nel mondo del metallo iniziò quasi per caso proprio in quegli anni, quando il fratello recuperò l’antenna della radio da una nave in disarmo. Con i fili di rame che ne ricavò cominciò a creare gioielli che i due fratelli vendevano ai turisti, in Piazza San Marco.

Quando non era sulle navi, Mario si dedicava all’oreficeria: frequentò corsi di incisione e calcografia, da un argentiere a Londra imparò la forgiatura e il cesello e da un orafo tradizionale veneziano la fusione in osso di seppia. Negli USA apprese la tecnica della fusione a cera persa e in Nepal la fusione in sabbia.
Molte altre tecniche invece le apprese direttamente dai libri – che spesso traduceva per le edizioni italiane – sperimentandole poi da autodidatta.

Fusione in osso di seppia

“Nella fusione, a destra, fate caso a quante pinne mostrano che i gradini degli strati funzionano egregiamente come sfiati , che si son riempiti d’argento.
A  destra noterete una pallina in cima a una pinna, si è formata dove la pinna termina nella piccola cavità (nella foto dell’impressione, a sinistra, è quella cavità irregolarmente triangolare in verticale sopra l’occhio), l’argento qui non era più costretto e solidificando ha “congelato” la forma sferica (per tensione superficiale del metallo liquido).”

Mario amava lavorare da solo, nel suo laboratorio riscaldato da una grande stufa in coccio.
Usava solo strumenti manuali  e tecniche classiche, soprattutto non amava ripetersi: ogni suo oggetto era un pezzo unico.

“Non amo rifare cose già fatte, ci sono troppe cose nuove da fare.
Di solito lavoro piccole serie, non credo possibile disegnare e realizzare l’oggetto perfetto, non migliorabile; non esiste il meglio assoluto, c’è sempre una linea che può essere cambiata, un particolare che può essere diverso, l’uso che suggerisce un cambiamento.”

Il laboratorio di Mario Cesari
Mario Cesari - Forgiatura di un gioiello

Moltissime furono, negli anni, le sue partecipazioni a mostre, Mario, inoltre, realizzava repliche di strumenti scientifici per diversi musei, scriveva e seguiva personalmente il sito che aveva creato sulla lavorazione del metallo, per cui aveva in progetto ulteriori ampliamenti: www.pennabilli.org.

Negli ultimi tempi lavorava con strumentazione ridotta, dal momento che si era trasferito in una casa albergo dove non poteva disporre di molto spazio.

Il 7 marzo, nel gruppo Facebook, suo nipote ci comunicava che Mario era venuto a mancare la mattina stessa.

Nella nostra comunità Mario Cesari lascia un grande vuoto, professionale ed umano, ma soprattutto lascia un’eredità artistica che testimonierà per lungo tempo la sua innata curiosità, la sua passione e il suo amore per l’arte orafa.

A me, invece, resterà per sempre il rimpianto di non averlo potuto conoscere di persona e di non aver mai avuto il tempo di frequentare uno dei suoi corsi.

Cartier e il Grande Gatsby

Cartier e il Grande Gatsby

Cartier e il Grande Gatsby

C’è solo un romanzo che è riuscito a catturare in un modo assolutamente perfetto la cosiddetta “Era del Jazz”, quel periodo di grande prosperità che, negli anni 20, fu caratterizzato da nuove libertà, nuovi modi di essere e nuovi stili, nel disperato tentativo di prendere le distanze dalle atrocità della Prima Guerra Mondiale.

Quel romanzo è il capolavoro di F. Scott Fitzgerald: “Il Grande Gatsby”, di fatto considerato il romanzo americano per eccellenza, uno di quelli che hanno maggiormente segnato la letteratura americana e che ancora oggi non ha perduto il suo fascino.

Così quando all’inizio degli anni ’70, trapelò la notizia che la Paramount Pictures aveva intenzione di trasformarlo in un film, non c’era attore holliwoodiano di un certo spessore che non ambisse ai ruoli dei protagonisti: Jay Gatsby e Daisy Buchanan.
Robert Redford sembrava perfetto per la parte di Gatsby mentre Mia Farrow fu scelta per la sua naturale ed eterea eleganza, perfetta per portare sullo schermo la leggerezza di Daisy.

Robert Redford e MIa Farrow ne Il Grande Gatsby

Il film ottenne l’oscar per i costumi e, dal momento che Cartier venne scelto per procurare i gioielli per il film, non poteva essere altrimenti!

L’iconica maison di gioielli, infatti, alla fine degli anni ’60, era già nota per aver battuto tutti i record d’ asta con la vendita dello strepitoso diamante di 69,42 carati, acquistato da Richard Burton per Elizabeth Taylor.
Cartier, proprio in quel periodo, stava rilanciando nelle sue creazioni lo stile e il design della gloriosa epoca dell’art déco, dando il via a un vero e proprio revival culturale dello stile degli anni ‘20.
Uno stile che aveva cominciato a catturare l’attenzione del pubblico proprio a partire dal 1968, anno in cui lo storico Bevis Hillier pubblicò la prima grande opera moderna sull’art déco.

E sono i gioielli creati dalla Maison proprio in quegli anni quelli che si possono ammirare nel film, gioielli che già nelle prime scene raccontano la vita privilegiata di Daisy e Jordan Baker.
In una delle scene del film Jordan indossa un incredibile sautoir di perle e perline di smeraldo, abbinata a una grande spilla, anch’essa con smeraldo e diamanti sapientemente intagliati.

Jordan Baker Il Grande Gatsby - outfit
Il grande Gatsby - particolare del sautier di perline e smeraldi

Daisy, invece, indossa un sottile girocollo di diamanti abbinato ad un braccialetto, a orecchini pendenti e a una delicata spilla circolare di diamanti, spiccano inoltre un filo di perle e un massiccio anello di fidanzamento con diamante a forma di marquise indosssato insieme a una fede di diamanti.
Le prime mise pomeridiane indossate dai caratteri del film si scolpirono letteralmente nella cultura popolare e nell’immaginario collettivo dei tempi, grazie anche alla copertina del numero di debutto della rivista People, (4 marzo 1974) che ritrae Mia Farrow nei panni di Daisy. Nella foto spiccano gli orecchini, la spilla circolare e  il girocollo di diamanti e l’iconica collana di perle.

Copertina People

Queste perle, pur non essendo menzionate nel film, sono ben descritte nel libro di F. Scott Fitzgerald: sono il dono che  Tom, futuro marito di Daisy, le regala  il giorno prima del matrimonio. Si tratta di una collana dal valore di  350.000 dollari che rappresenta il suggello del loro impegno.
In un’altra scena drammatica del romanzo, Daisy, durante un’ accesa discussione, getta via la collana per poi tornare a recuperarla. A differenza di Tom, per Daisy, queste perle rappresentano il simbolo della sua relazione tumultuosa con il marito.
La collana fu progettata e creata appositamente per il film dal designer di Cartier, Alfred Durante, la macchna da presa indugerà su di esse molte volte, quasi a voler contendere alla protagonista la scena e l’attenzione del pubblico.
L’enorme anello di fidanzamento invece, (impossibile non notarlo sin dalla prima scena) resta fermamente al dito della Farrow per tutto il film, Daisy non se lo toglierà mai, nemmeno per fare il bagno.
Un attaccamento che sicuramente non era sfuggito agli spettatori, dopo l’uscita del film infatti, furono molti i clienti che si recarono nella boutique di Cartier cercando  “l’anello di Daisy”.

Quando Jay Gatsby incontra Daisy sul prato,  lei indossa un  completo di chiffon beige e sta amabilmente sorseggiando champagne.
Completa il suo look una diversa collana di perle dove il filo è intervallato da piccoli dischi di onice nera e corallo, che fanno eco alle gemme incastonate nella splendida spilla Love Birds.

Love Birds, fu realizzata da Cartier nel 1928 e raffigura due pappagalli di rubino, onice e diamanti.  
Un piccolo beauty case in oro e pietre preziose, sempre di Cartier, completano lo spettacolare outfit di Mia Farrow in questa scena.

Daisy - Il Grande Gatsby - anello di fidanzamento e spilla Love Birds
Il grande Gtsby gioielli
Il Grande Gatsby - spilla Love Birds
Daisy - Il grande Gatsby

Uno dei modelli art déco maggiormente degni di nota è indossato da Jordan Baker, nella scena in cui la compagnia decide di passare una serata a New York City.
Si tratta di una collana di perle con accenti di smeraldo intagliato e un incredibile smeraldo di 86,71 carati al centro, realizzata da Cartier a New York intorno al 1925.

Un orologio con pietre preziose che Daisy indossa ad una festa a Long Island richiama invece quello che lo stesso  F. Scott Fitzgerald regalò alla moglie Zelda (un orologio da polso tempestato di diamanti, sempre di Cartier) comprato con i proventi della vendita del suo libro “This Side of Paradise”.

Jordan Baker Collana di perle e smeraldo
Jordan Baker Collana di perle e smeraldo - Il Grande Gatsby
Mia Farrow e Robert Redford - Il Grande gATSBY

Per molti versi Il Grande Gatsby fu la prima esibizione pubblica dei gioielli art déco di Cartier, dopo gli editoriali degli anni venti apparsi  sulle riviste.

Due anni dopo l’uscita del film, Cartier organizzò alla Fifth Avenue Mansion di New York la prima personale mostra sull’art déco, “Louis Cartier Retrospective” dove, tra gli altri, vennero esposti molti pezzi indossati dalle protagoniste del film.

La mostra, che contava 150 gioielli e un diverso numero di orologi riscosse un grande successo di critica, grazie anche alla partecipazione di numerose celebrità del tempo, prime fra tutte Grace Kelly  e  la principessa Yasmin Aly Kahn, figlia di Rita Hayworth, (quest’ultima immortalata in una foto apparsa sul New York Times mentre ammirava i preziosi oggetti esposti).

La popolarità della retrospettiva e le numerose altre che seguirono nel corso degli anni hanno contribuito ad eleggere Cartier come la maison più autorevole per quanto riguarda i gioielli e gli oggetti  dell’art déco.
Eppure, nessuna mostra ha mai catturato l’attenzione quanto i gioielli indossati durante i ruggenti anni Venti portati in scena dal film Il Grande Gatsby.

La minigonna: centimetri di libertà

La minigonna: centimetri di libertà

La minigonna: centimetri di libertà

Lo sappiamo tutti: l’abito FA il monaco.
E lo fa ancora di più se il monaco in questione è DONNA.

Nella società dell’immagine, oggi, siamo tutti giudicati in base al nostro aspetto, e noi ragazze lo sappiamo molto bene!

Ogni volta che scegliamo i vestiti e i gioielli da indossare, scegliamo di comunicare al mondo un determinato messaggio e, certe volte, questo messaggio può anche dare il via ad una rivoluzione.

Come quella che abbiamo iniziato indossando la minigonna.

Quella della minigonna è l’unica rivoluzione del Novecento che non sia finita in tragedia sanguinaria, la sola ad aver mantenuto le sue promesse di liberazione e anche l’unica che, nelle sue molteplici declinazioni, è tutt’ora in corso.

In quei pochi centimetri di tessuto le donne hanno infatti proiettato ribellione, desiderio di cambiamento, allusioni ed evoluzioni.
Centimetri di libertà, che hanno veicolato l’idea dell’autodeterminazione femminile: la minigonna è stata sicuramente più efficace di qualsiasi manifesto femminista.

Non si tratta solamente di un capo di abbigliamento.
La minigonna è diventata un mito, ma è stata, in primis, lo strumento per veicolare e diffondere a macchia d’olio il desiderio di emancipazione delle donne di tutto il mondo.
E lo è ancora oggi: io sono mia,  sembrano gridare quelle gambe in libertà che spuntano sotto i pochi centimetri di stoffa.

Storia vecchia fa buon brodo, ma non è un caso che l’accorciamento dei vestiti – orli e maniche – sia da sempre stato direttamente proporzionale al desiderio di autodeterminazione del genere femminile.

Era già accaduto negli anni Venti quando le svolazzanti gonnelline charleston salirono ben al di sopra del ginocchio, mandando in soffita longuettes, crinoline, e gonnelloni (e a quel paese bacchettoni e  moralisti).

UN PO’ DI STORIA

È curioso notare come la minigonna non sia il  frutto delle rivoluzioni e dei cortei sessantottini, ma li anticipi di ben 5 anni.
Era infatti il 1963 quando Mary Quant, nel pieno del clima effervescente della Swinging London di quel decennio, liberò le gambe delle sue clienti.

La mini skirt svecchiava l’abbigliamento delle giovani londinesi così come l’iconica Mini Minor svecchiava le quattroruote, entrambe strizzavano l’occhiolino ad un modo di vivere giovane, scapigliato e disinibito.

Il momento in cui la minigonna fece la sua apparizione nelle vetrine di Bazaar, la boutique che la Quant aveva aperto al primo piano della sua casa in King’s Road, fu il momento del definitivo strappo con il passato.

Bazaar  e la stessa King’s Road diventarono così l’epicentro creativo di Londra, la città dei Beatles e dei Rolling Stones, degli Who e di Marianne Faithfull.
La città dove Richard Avedon e Helmut Newton riscrissero i canoni della bellezza femminile, fotografando le gambe scoperte di Twiggy e di Jean Shrimpton, gambe lunghe e affusolate che erano vere e proprie armi, ancora più letali delle molotov e persino degli zoccoli di legno delle femministe.

Le donne, fino ad allora logorate dal conservatorismo opprimente del patriarcato, si aggrapparono con tutte le loro forze a quei pochi centimetri di stoffa e li usarono per emanciparsi e riscattare sia la propria femminilità, sia quella di qualsiasi altra donna che, fino ad allora, si sentiva inadatta, sbagliata e inadeguata.

La minigonna era diventata fondamentale per il riscatto femminile contro il maschilismo imperante.

Infatti, ogni centimetro in meno di stoffa era percepito come un colpo ulteriore al maschilismo e al sistema patriarcale.
Un fendente che mandava in frantumi l’immagine stereotipata e indelebilmente impressa nell’immaginario maschile della donna sottomessa e confinata ai fornelli. Un’immagine che ormai strideva con l’aria frizzante del momento.

Ovviamente fu uno scandalo.
Quelle gambe vennero considerate come l’emblema del male e del malcostume.
Scandalose e immorali.
In realtà negando la minigonna si cercava di negare alle donne l’autodeterminazione del proprio corpo che mandava in frantumi l’immagine familiare e familista della donna sottomessa e materna, una donna non seduttiva e dedita unicamente alla famiglia e alle virtù domestiche.

La minigonna, però, piaceva alle donne, anche e soprattutto perchè lusingava la loro essenza femminea.
Cominciarono così ad indossarla tutte.
Ma proprio TUTTE: dive e donne comuni.

Mary Quant

Mary Quant, la stilista dal caschetto irriverente, dalle gonne cortissime e gli stivali di pelle attillati, regalò alle donne molto più di un capo di abbigliamento: regalò alle donne la libertà di saltare, ballare e di mostrarsi o più semplicemente di rincorrere un autobus senza impedimenti.

“Più corto, più corto”
le chiedevano le clienti durante le prove nel suo laboratorio, mentre gli orli si accorciavano sempre di più.
Per questo ancora oggi Mary Quant afferma che:
“Le vere creatrici della minigonna sono le ragazze che si vedono in strada”.

La minigonna di Mary e gli altri suoi capi (i famosi hot pants, evoluzione estrema della miniskirt) fecero il giro del mondo, grazie anche alle magrissime gambe di Twiggy, la super model, volto (ma soprattutto gambe) della Swinging London.

Insomma, nonostante l’invenzione di questo capo sia tuttora contesa da altri fashionisti e stilisti meno celebri di lei, nel lessico contemporaneo della moda si scrive mini skirt e si legge Mary Quant. 

 OGGI

Perché ritengo che questa rivoluzione sia ancora in corso, nonostante siano passati parecchi decenni dalla sua prima apparizione?

La risposta è semplice: basta pensare all’ostilità che si respira ancora oggi in quei paesi dove conservatorismo e maschilismo patriarcale vanno ancora a braccetto.

Per garantire e mantenere lo status quo misogino, i governi sanno bene che la prima cosa da colpire e distruggere sono i simboli del femminismo e la minigonna è in assoluto LA dichiarazione della libertà e dell’indipendenza femminile.

Tristemente devo però evidemziare come nemmeno il “libero mondo occidentale” risulti essere del tutto esente dai rigurgiti del maschilismo opprimente e censorio.

Infatti, si assiste ancora oggi a qualche episodio sporadico (ma indicativo) di reprimenda contro le gambe scoperte.
Gambe che nei discorsi più offensivi vengono definite “prosciutti” e “carne al vento”.
Una stupida e becera ironia che porta in superfice quella volgarità misogina e maschilista che identifica le donne come “pollastre” o “pezzi di carne” da consumare.

È sempre quello stesso stupido pensiero misogino che accusa le ragazze vestite in un certo modo di “essersela andata a cercare” quando si tratta di molestie e violenze e che si incarna nell’odiosa domanda che certi giudici rivolgono alle vittime: “Come era vestita?”.

Insomma, la strada dell’emancipazione femminile è ancora lunga e tortuosa ma, grazie all’intuizione di Mary Quant, il sentiero è ormai tracciato.

E indietro non si torna!

La Perla Peregrina di Liz Taylor

La Perla Peregrina di Liz Taylor

La Perla Peregrina di Liz Taylor

La Perla Peregrina è un altro dei gioielli favolosi della magnifica collezione di gioielli di Liz Taylor di cui avevo già parlato in questo post dedicato alla magnifica parure Reine Marguerite.

Il rapporto che Elizabeth Taylor aveva con i suoi gioielli era viscerale e viene ben descritto da Paolo Bulgari, Presidente dell’omonima casa di gioielli 100% Made in Italy :

“I gioielli erano per lei una fonte di pura felicità ed infatti amava indossarli anche per condividere con gli altri il loro magico potere di dare gioia ed eccitazione”.

La Perla Peregrina era particolarmente cara all’attrice, non solo per ragioni sentimentali ma anche perchè era un gioiello favolosamente ricco di storia.

Richard Burton acquistò la Perla nel 1969 per 37 mila dollari, durante l’asta che si tenne alle Gallerie Parke-Bernet a New York, poi divenute parte di Sotheby’s.

Era il preziosissimo regalo di San Valentino per la fidanzata Elizabeth Taylor, uno dei tanti gioielli che suggellarono una delle relazioni più tormentate e appassionate di Hollywood.

Nel 1972 Liz commissionò a Cartier la progettazione di una collana di rubini e diamanti per incastonare la perla, il risultato fu un gioiello sorprendente, unico e incredibilmente prezioso.

La Perla Peregrina

 

Le dimensioni eccezionali della perla, che misura  circa 17,35 – 17,90 x 25,50 millimetri, la rendono piuttosto pesante e, forse proprio per questo, nella sua lunga e turbolenta storia venne più volte persa e ritrovata..  Fu infatti smarrita tra i divani del Castello di Windsor e a Buckingham Palace, così come nella suite imperiale del Ceaser Palace dove alloggiavano la Taylor e Burton.

Liz perse la perla proprio la sera di San Valentino, come racconta proprio la diva nel suo libro “Elizabeth Taylor: My Love Affair with Jewelry”

“A un certo punto ho allungato la mano per toccare La Peregrina e non c’era!
Ho dato un’occhiata a Richard e grazie a Dio non mi stava guardando, sono corsa in camera e mi sono buttata sul letto, ho affondato la testa nel cuscino e ho urlato”

Tutti cominciarono a cercare il gioiello sul tappeto finché qualcuno notò il cane di Liz  nascosto sotto una sedia e intento a masticare la perla, fortunatamente il gioiello non fu danneggiato..

Cinque secoli di storia della Perla Peregrina avrebbero potuto conoscere la parola “FINE” proprio tra le fauci del cane della diva.

La perla peregrina

Infatti, la Perla Peregrina è uno dei gioielli più antichi al mondo, la cui storia è ben documentata anche se la sua origine è piuttosto controversa.

La leggenda narra che la perla fu trovata nel 1513 da uno schiavo africano sull’isola Santa Margarita nel Golfo di Panama, territorio allora colonizzato dagli spagnoli.

Di forma oblunga, simile a quella di una pera, assolutamente perfetta, venne consegnata dallo schiavo ai suoi padroni, ottenendo come ricompensa la libertà.

Altre fonti attestano che la scoperta della perla sia invece avvenuta in Venezuela.

La perla finì comunque nelle mani dell’amministratore della colonia spagnola che riconoscendone il valore e la rarità la portò nel Vecchio Continente e la consegnò a Filippo II, futuro re di Spagna. 

Filippo donò la perla come pegno del suo amore alla futura consorte Maria I d’Inghilterra (che la indossa nel ritratto di Hans Eworth).

Successivamente la Peregrina passò per le mani dei reali di Francia e Inghilterra, sopravvivendo sia alla Rivoluzione Francese sia a quella bolscevica.
In epoca napoleonica finì prima nelle mani di Giuseppina Bonaparte, poi in quelle di Ortensia de Beauharnais. Dopo esser stata venduta a un aristocratico inglese, Richard Burton riesce ad aggiudicarsi la Peregrina all’asta nel 1969, alla cifra di 39mila dollari regalandola poi come presente per San Valentino alla sua Liz.

La Perla Peregrina e i sovrani

Prima di quell’asta la ex regina di Spagna Vittoria Eugenia rivendicò il possesso dell’autentica Perla Peregrina, che ricevendola da Re Alfonso XIII come dono di nozze.
Molti infatti sono i ritratti delle regine di Spagna che indossano una grande perla che sembra identica a quella della collezione Taylor.
Si ritiene,  infatti, che in origine la  famiglia reale spagnola ne possedesse due identiche: la Peregrina e la Perla di Carlo II, montate in un paio di orecchini per la Regina Maria Luisa, moglie di Carlo IV. Perle che avrebbero poi conosciuto destini e strade diverse nel corso degli anni, lasciando il legittimo dubbio su quale delle due sia venuta in possesso di Liz Taylor.

La diva custodì gelosamente La Peregrina per tutta la vita, fino alla sua morte nel 2011, quando il gioiello fu venduto, insieme agli altri della sua collezione,  all’asta da Christie’s per raccogliere fondi per la Elizabeth Taylor AIDS Foundation.

Valutata inizialmente tra i due e i tre milioni di dollari di valore, fu comprata da un acquirente anonimo per la strabiliante cifra di 11 milioni di dollari, stabilendo così un nuovo record storico.

La parure Cartier con la Perla Peregrina all'asta
Elizabeth taylor e la Perla Peregrina